Si parla di riaperture e di uscite libere. Ma dal punto di vista culturale, sblocchiamo davvero la situazione?

Si sente dire in giro che proprio in queste ore di riaperture e di ritorni alla libertà, per affrontare la nuova “normalità” bisogna rispettare un solo imperativo: reinventarsi.

In realtà, questa dovrebbe essere la zona bianca della cultura o, se preferisci, la zona tipo “pensiero positivo” anche se l’espressione più adeguata alla situazione attuale – secondo me – suona più o meno così: SOS!

Il campo delle arti performative e del teatro, dei musei e delle sale espositive, per non parlare del settore del restauro, come altri di indubbia importanza sociale e culturale, sono combattuti tra la denuncia dell’oblio che ciascuno lamenta sentendosi vittima e la prudenza nel promettere. Ci si sente lontani dal garantire che l’attuale fatica assicuri una riapertura immediata e permanente.

Non solo: la situazione non è confrontabile in tutti i casi. La riapertura svela profonde disuguaglianze, non solo tra i settori, ma anche all’interno di ciascuno di essi. Fateci caso, proprio da questo giornale o leggendo i comunicati stampa.

L’offerta online, è stata meno attraente di quel che sembra

L’applicazione in ambito culturale di una specie di “escalation” al contrario, vissuta dal nostro territorio in tempi non sospetti, lascia nell’aria la situazione reale della cultura. E non mi riferisco all’attuale Fase 0 di questo nuovo inizio, verso la “nuova normalità”, ma alla situazione precedente nella quale prima della pandemia si chiudevano spazi di attività. Ci sono due assi in cui vorrei testare questa situazione: digitalizzazione e partecipazione pubblica.

Nemmeno il più incauto seguace di Kubrick può credere seriamente che chiunque, tra pochi mesi, entrerà di nuovo nel museo, nel teatro, nella galleria o nel ristorante, come individuo di una specie umana migliorata o potenziata dalla reclusione.

La proliferazione di offerte culturali online gratuite – di opere preregistrate di balletti dai templi più rispettati della lirica, da New York a Monaco e i tour interattivi dei musei che ospitano i capolavori di Google e così via, ci hanno regalato un’overdose di digitalizzata offerta on-demand che nasconde una domanda poco confortante: chi possiede davvero tutti i mezzi necessari per produrre, distribuire, pubblicizzare e rendere redditizia quella griglia di contenuti in presenza e per quanto tempo?

Il modello “Netflix” è davvero l’unica soluzione?

Il modello “Netflix” di scelta algoritmica dei contenuti, confezionati tematicamente e consumabili a casa, sembra funzionare come modello per tutta la futura sostenibilità culturale. Ma il modello ha i suoi difetti.

Quando pensiamo, ad esempio, al futuro del Museo, c’è chi ritiene che operare al 50% della capacità sia un’amputazione necessaria nata all’epoca in cui le stanze di alcuni musei, in condizioni normali, venivano rese inaccessibili perché spopolate perfino quando il biglietto era gratuito.

Si dice che il comportamento dei musei nel recente passato sia stato eccessivamente “incentrato sull’offerta”, dimenticando di dare valore a quegli altri compiti che storicamente hanno dato loro un significato sociale: ricerca, conservazione, educazione o dibattito pubblico. La cultura ha investito, forse in eccesso e perfino accettando come dato di fatto la sua “naturale” svalutazione, nel paradigma “esperienziale”.

È interessante notare che la retorica “dell’esperienza memorabile” aderisce più facilmente al circuito del tempo libero individualizzato, come accade nei social (pensa a Instagram). Prima che ricada sotto la sua giurisdizione l’ascolto dal vivo di un concerto con opere di Anton Webern, la visione di una mostra d’arte o l’incontro con un autore, bisognerà forse aver chiarito vantaggi e svantaggi di questo nuovo “tempo libero” e non è detto che “vinceranno” i prodotti in presenza.

Ciò che preoccupa è che le offerte culturali che hanno bisogno proprio di quel tempo libero apparente ed esibizionista che è il social sembrano emergere rafforzate dalla crisi. C’è forse un’affinità elettiva tra le loro finalità che lascia intuire che di vero e proprio “sblocco” è sempre più difficile parlarne.

E nel frattempo noi spettatori che facciamo?

La pandemia ha dato alla cultura compiti difficili il doppio alla metà del tempo e in un punto delicato: mettere il pubblico al centro della sua attività e farne la propria missione. La migrazione, a volte scarna, a volte ostentata, delle attività verso piattaforme online ha messo in luce un vecchio problema, ma capovolto: non più solo l’eterna paura di un botteghino vuoto, ma il nuovo problema del “che dire di quello che faccio” ad un pubblico disattento che circola virtualmente.

Il tempo libero, infatti, oggi assomiglia meno al tempo libero di un anno e mezzo fa. I settori che lo stanno costruendo, quelli più in sintonia con i progetti di autorealizzazione dei cittadini, stanno già dicendo che il loro messaggio sarà uno solo: aiuto, affoghiamo!

Che fare? Forse non dobbiamo far altro che capire, con assoluta chiarezza, che la prossima mostra d’arte o il prossimo concerto o spettacolo teatrale avranno uno scopo molto più alto ma necessario al benessere di tutto il settore. Dovranno insegnarci come si fa a reinventare noi stessi. Anche come spettatori.

 

Digitalizzazione – tempo libero – social – teatro on demand – arte

Matilde Puleo